E' sempre un piacere scoprire che Michael Stipe, cantante e leader dei REM, va in giro a cantare e a esibirsi qua e là con grandi artisti rock. Stavolta ho trovato su You tube questa bellissima "Because the night" con Bruce Springsteen dal vivo. Trovo che la versione di Michael sia perfetta (io però sono una fan accanita della sua voce e delle sue interpretazioni).
Vale la pena seguire il testo (fu scritta da Bruce Springsteen e la portò alla gloria Patti Smith).
take me now baby here as I am
pull me close, try and understand
desire is hunger is the fire I breathe
love is a banquet on which we feed
come on now try and understand
the way I feel when I'm in your hands
take my hand come undercover
they can't hurt you now,
can't hurt you now, can't hurt you now
because the night belongs to lovers
because the night belongs to lust
because the night belongs to lovers
because the night belongs to us
have I doubt when I'm alone
love is a ring, the telephone
love is an angel disguised as lust
here in our bed until the morning comes
come on now try and understand
the way I feel under your command
take my hand as the sun descends
they can't touch you now,
can't touch you now, can't touch you now
because the night belongs to lovers ...
with love we sleep
with doubt the vicious circle
turn and burns
without you I cannot live
forgive, the yearning burning
I believe it's time, too real to feel
so touch me now, touch me now, touch me now
because the night belongs to lovers ...
because tonight there are two lovers
if we believe in the night we trust
because tonight there are two lovers ...
mercoledì 28 novembre 2007
Desire is hunger, is the fire I breathe
mercoledì 21 novembre 2007
La panchina di Tatjana
Una riflessione su l'Evgenij Onegin di Aleksandr Puskin, uno dei capolavori assoluti della letteratura russa, e su Marina Cvetaeva, poetessa russa della prima metà del 900, donna dalla vita tormentata e “creatura di passioni”.
Evgenij Onegin è un giovane dandy, egoista, annoiato di tutto e di tutti. L’eredità di uno zio lo porta a San Pietroburgo dove, insieme al poeta idealista Lenskij, frequenta la casa della Signora Larin che vive con le due figlie, Tatjana e Olga. Romantica e malinconica la prima, vivace e allegra la seconda. Lenskij è fidanzato con Olga. Tatjana brucia d’amore per il frivolo Evgenij. Gli scrive una lettera confessandogli il suo amore, lui la rifiuta e la rimprovera con freddezza. Durante una festa da ballo si mette a corteggiare Olga, più per noia che per interesse. Sfidato da Lenskij, lo uccide in duello.
Dopo anni di peregrinazioni, ritorna a San Pietroburgo e ritrova Tatjana sposata ad un generale, e ormai divenuta una donna di gran classe. Se ne innamora perdutamente, si ammala, ne esce quasi pazzo. Scrive a Tatjana una lettera quasi identica a quella che lei gli aveva scritto alcuni anni addietro, ma ora è lei che lo rifiuta con parole fredde, non vuole tradire la fedeltà coniugale. Ma gli confessa di amarlo ancora…
Marina Cvetaeva rimane colpita, ancora bambina, da una rappresentazione del poema puskiniano durante uno spettacolo scolastico.
In una scena tratta dal IV capitolo dell’Onegin, Tatjana e Evgenij sono nel giardino dei Larin, intorno a una panchina, e lì si “mancano” per la prima volta. Marina vede così la scena:
“La panchina su cui loro non sedevano si rivelò decisiva per il mio futuro. Né allora, né dopo, mai mi è piaciuto quando si baciavano, sempre quando si separavano. Mai – quando si sedevano, sempre – quando se ne andavano, ognuno in direzione opposta. La mia prima scena d’amore fu di non amore: lui non l’amava (questo lo capivo) e per questo non si sedette sulla panchina, l’amava lei…; lui parlava, lei taceva; lui non amava, lei amava; lui andò via e lei restò…e se adesso alzassimo il sipario – lei sta lì, sola, o forse è di nuovo seduta…perché stava in piedi solo perché lui stava in piedi e poi si è abbattuta sulla panchina, e così resterà in eterno. Tatjana è eternamente seduta su quella panchina…Da quel momento stesso io non volli essere felice e mi condannai al nonamore…"
Vi lascio questo commento della Cvetaeva così com'è, vi invito a leggere l'Evgenij Onegin se non l'avete ancora fatto, e vi segnalo anche il sito del fotografo inglese Tristan Campbell, da cui è tratta la foto in alto.
mercoledì 7 novembre 2007
Duende
Voglio iniziare a parlare finalmente di flamenco e soprattutto oggi voglio provare a spiegarvi che cosa significa essere flamenco.
Il flamenco rappresenta per me una parte importante del mio essere e della mia vita. Ho iniziato a studiare il baile un po’ per caso sedici anni fa e sono rimasta subito colpita da come si adattasse a ciò che sentivo dentro. E’ stato come uno scandagliare dentro di me.
Perché il flamenco non è un ballo o un canto o una musica. Il flamenco è un modo di essere. Come tale, è un modo di sentirsi e di esprimersi.
L’arte è data dalla forza interpretativa, non dalla bellezza estetica. Ciò che può sembrare brutto, se non addirittura grottesco, nel flamenco è bello.
Questo particolare tipo di espressione viene chiamato duende, essenza dell’estetica flamenca.
Questo termine in italiano non ha una traduzione corrispondente: significa folletto, spirito, demone. E la parola giusta sarebbe proprio “demone”.
Federico Garcia Lorca, nella sua Teoria y juego del cante jondo ha scritto:
“Tutto ciò che ha suoni oscuri ha duende. Questi suoni oscuri sono il mistero, le radici che affondano nel limo che tutti noi conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da dove proviene ciò che è sostanziale nell’arte. Il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire a un vecchio maestro di chitarra: Il duende non sta nella gola; il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi. Vale a dire, non è questione di facoltà, bensì di autentico estilo vivo; ovvero di sangue; cioè, di antichissima cultura, di creazione in atto. Per cercare il duende non vi è né mappa né esercizio. Si sa soltanto che brucia il sangue come un topico di vetri, che prosciuga, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili.”
Per definire il duende, Lorca cita il seguente episodio (e leggete con attenzione le parole poetiche che usa per descrivere la scena!):
“Una volta, la cantora andalusa Pastora Pavón (chiamata La Niña de los Peines), cupo genio ispanico, cantava in una tavernetta di Cadice. Giocava con la sua voce d’ombra, con la sua voce di stagno fuso, con la sua voce coperta di muschio, e se la intrecciava nella chioma o la bagnava nella manzanilla o la perdeva in intrichi oscuri e lontanissimi. Ma niente, era inutile, gli ascoltatori stavano zitti. Pastora Pavón finì di cantare nel silenzio.
Solo, e con sarcasmo, un uomo piccolino, di quegli ometti ballerini che escono d’improvviso dalle bottigliette di acquavite, disse a bassa voce: “Viva Parigi!” come a dire: “Qui non ci interessano le capacità, né la tecnica, né la maestria. Ci interessa un’altra cosa!”. Allora la Niña de los Peines si alzò come una folle, conciata come una préfica medievale, trangugiò d’un fiato un gran bicchiere di acquavite come fuoco, e si sedette a cantare senza voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola riarsa ma…con duende. Era riuscita a uccidere tutta l’impalcatura della canzone per cedere il passo a un duende furioso e rovente, amico dei venti carichi di sabbia, che induceva gli ascoltatori a stracciarsi le vesti. La Niña de los Peines dovette squarciarsi la voce perché sapeva che gli ascoltatori erano dei raffinati che non chiedevano forme, bensì midollo di forme, musica pura con il corpo leggero per potersi liberare. Dovette privarsi di facoltà e sicurezze; ossia, allontanare la sua musa e abbandonarsi, perché il suo duende venisse e si degnasse di lottare a viva forza. E come cantò! La sua voce non giocava più, la sua voce era un fiotto di sangue degno del suo dolore e della sua sincerità…”.
Il garbo, la grazia, la personalità e il duende sono qualità fondamentali. Il baile flamenco comprende movimenti di piedi (zapateado, punteado, pateo), corpo (torsión, vaivén, convulsión) e braccia (braceos, manos y dedos). E’ stato definito come ballo individuale, basato sulla improvvisazione e la creazione, che esige grande concentrazione e si realizza in uno spazio contenuto.
Il baile non può essere mai considerato separato dal cante e dal toque (la chitarra). Il flamenco è composto da diversi stili (palos) ben differenziati e con alcune regole generali di coreografia. A seconda del loro carattere drammatico, gli stili del baile si possono dividere in jondos (balli strettamente legati alla tradizione gitana e di solito più drammatici, quali soléa e seguiriya), festivos (balli burleschi come alegrías, bulerías, tangos...) o populares (sevillanas, fandangos).
Chiudo con una bella descrizione dell'essere flamenco di Tomás Borrás nella sua Elegía del cantaor:
"Essere flamenco è avere un'altra carne, un'altra anima, altre passioni, un'altra pelle, altri istinti, desideri:
è avere un'altra visione del mondo, con un sentimento grande; il destino nella coscienza, la musica nei nervi, fierezza indipendente, allegria con lacrime; è il dolore, la vita e l'amore che incupiscono; odiare la routine, il metodo che castra; immergersi nel cante, nel vino e nei baci; trasformare la vita in un'arte sottile, capricciosa e libera; senza accettare le catene della mediocrità; giocarsi tutto in una scommessa; assaporarsi, darsi, vivere. Questo."
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