Un indice puntato
dalla ruggine del cielo.
Comparve nel luogo convenuto
come il fato.
“Meno un quarto. Ho tardato?”
“La morte non attende.”
Troppo, troppo calcolati
il tono, lo slancio.
Su ogni ciglio una sfida.
Le labbra contratte.
Troppo, troppo profondo
l’inchino, cordiale il saluto.
“Meno un quarto. Puntuale?”
La voce mentiva. Il cuore
sale alla gola: che ha?
Il cervello: è un segnale…
Cielo di brutte notizie, di latta
arrugginita.
Aspettava al solito posto.
L’ora: le sette.
Quel bacio senza rumore:
labbra di sasso –
così si bacia la mano
ai morti, alle signore…
Gente frettolosa.
Gomiti nei fianchi.
Troppo, troppo odiosa
urlò la sirena.
Ululò, guaì come un cane
- stizzita, a lungo. (Troppo:
esagerazione della vita
nell’ora della morte.)
E tutto quanto ieri – alla mia altezza,
di colpo si misura al cielo.
(Esagerato, esagerato, cioè:
in tutta la statura!)
Dentro di me: caro! caro!
“Che ora è?” “Le sette e un minuto.
Al cinema oppure?...”
Come un boato: “A casa!”
(da Poema della fine, Marina Cvetaeva, 1924)
E' la cronaca di una lacerante separazione imposta dalla vita, una delle tante che Marina Cvetaeva dovette sopportare. Marina era una donna passionale ed ebbe una vita difficile e dolorosa.
Leggete attentamente e senza nessuna fretta il primo capitolo di questo appassionante poema. Va assaporato, fatto passare minuziosamente per ogni piccolo meandro del cervello, e soprattutto dell'anima. Riprendetelo dopo alcuni giorni, o dopo mesi, anni. I versi a volte passano lievi, altre si sedimentano e rivelano la loro bellezza soltanto allora. Tutto, ovviamente, dipende dal nostro modo di recepirli.
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