mercoledì 19 marzo 2008

Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti



Forse non si adatta molto alla Pasqua, ma girovagando qua e là su You Tube ho trovato questo Carmelo Bene che interpreta "All'amato se stesso" di Majakovskij.
Non amo la poesia declamata, lo so, è un mio limite. La poesia per me va letta in silenzio, da soli.
Questo è uno dei rarissimi casi in cui faccio un'eccezione. Carmelo Bene interpreta magistralmente il senso dei versi di Majakovskij, accompagnato da un pianoforte che sottolinea i passaggi in maniera eccellente.
E' una delle mie poesie preferite, dalla grande forza emotiva. Un uomo grande, grosso, eppure così pieno di amore da non sapere dove metterlo.
Proprio come mi sento sempre io.

All’amato se stesso dedica queste righe l’autore

Quattro.
Pesanti come un colpo.
“A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio.”
Ma uno
come me
dove potrà ficcarsi?
Dove mi si è apprestata una tana?
S’io fossi
piccolo
come il Grande Oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde,
con l’alta marea carezzando la luna.
Dove trovare un’amata
uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!
Oh, s’io fossi povero!
Come un miliardario!
Che cos’è il denaro per l’anima?
Un ladro insaziabile si annida in essa.
All’orda sfrenata dei miei desideri
non basta l’oro di tutte le Californie.
S’io fossi balbuziente
come Dante
o Petrarca!
Accendere l’anima per una sola!
Ordinarle coi versi di struggersi in cenere!
E le parole
e il mio amore
sarebbero un arco di trionfo:
pomposamente,
senza lasciar traccia, vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.
Oh, s’io fossi
silenzioso
come il tuono,
gemerei,
stringendo con un brivido il decrepito eremo della terra.
Se urlerò a squarciagola
con la mia voce immensa,
le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto dalla malinconia.
Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti
se fossi
appannato
come il sole!
Che bisogno ho io
di abbeverare col mio splendore
il grembo dimagrato della terra!
Passerò,
trascinando il mio enorme amore.
In quale notte
delirante,
malaticcia,
da quali Golia fui concepito,
così grande
e così inutile?

Vladimir Majakovskij, 1916

giovedì 13 marzo 2008

Cuore o straccio di tela?




Giù – per lo strapiombo – in
Polvere! Pece. In – pace.
Condire sempre con lacrime di sale
avanzi di amore umano?

Balcone. Tra scrosci salati
catrame amaro di baci.
Sospiro sfrenato dell’odio:
in un verso – riprendere fiato!

E questo, gualcito nella mano,
cos’è: cuore o straccio
di tela? C’è un nome: Giordano
per questi fradici impacchi.

Sì, perché la lotta con l’amore
è selvaggia, spietata. Salto –
dalla fronte di granito: fiato
tirato – nella morte!

30 giugno 1922


Perché tu non mi veda –
in vita – di spinosa invisibile
siepe mi circondo.

Di rovi mi cingo,
in brina – scendo.

Perché tu non mi senta –
in notte – nella senile scienza
del riserbo mi cimento.

In mormorio – mi stringo,
di sussurri mi bendo.

Perché tu troppo non fiorisca
in me – tra libri: tra boscaglie –
vivo – ti affondo.

Di fantasie ti cingo
fantasma – ti sricordo.

25 giugno 1922


Marina Cvetaeva scrive questi versi per un amore finito. Le cronache ci dicono che più che di amori si trattava di passeggere infatuazioni di una donna facile a perdersi dietro un capriccio.
Per noi, lettori appassionati, tutte queste interpretazioni poco contano.
Ci piace leggere nei versi piccoli pezzi di noi e attorno ad essi vivere le nostre emozioni.