venerdì 4 aprile 2008

Per Valeria



Valeria D'Arbela, Odio e morte nella città di cemento


Questo che vedete sopra è un quadro di Valeria D’Arbela.

Valeria era una donna particolare. Ho avuto la fortuna di conoscerla e di frequentare per qualche tempo, con la leggerezza e l'allegria degli incoscienti, la sua casa sempre piena di amici. Era una di quelle donne che tengono le porte aperte. Tutte le porte.

Era nata a Firenze, ma la sua vera città natale era Venezia.
La pittura era la sua passione e fin da piccola si cimenta con gli acquerelli. La sua prima mostra è proprio a Venezia alla galleria del celebre gruppo dell’ARCO nel dicembre del 1945, subito dopo la liberazione. Lei ha solo quindici anni.

Negli anni 50 aderisce al movimento realista, le sue opere hanno un carattere espressionista e raccontano gli “umiliati e offesi”, il mondo del lavoro. Le sue composizioni sono ispirate alle lotte operaie, ai proletari, ai pescatori di Chioggia e Pellestrina, ai braccianti del Delta padano. Ritrae Venezia con l’intrico delle sue calli, dei rii, gli squeri, le barche.

Si trasferisce a Milano nel 1963 dove approfondisce la sua visione artistica della pittura orientata verso un continuo scambio tra fantasia e realtà e si concentra sul concetto di dimensione urbana.

Dal 1970 i temi della città e della donna suggestionano fortemente la sua attività. Cominciano i cicli pittorici dedicati alla “città disumana”, alla donna rappresentata come oggetto di violenza e soggetto di bellezza. Poi è la volta degli echi della contestazione giovanile degli anni 70 che vengono trasformati in rappresentazioni simboliche.

Nel 1977 si trasferisce a Roma, dove apre uno studio galleria.
Qui la natura viene trasfigurata, creando paesaggi fantastici e onirici. E’ il periodo dei luna-park allegorici, eseguiti a china e a olio.
Arrivano poi le grandi tele dei mari e della rivisitazione di Venezia, città che può considerarsi a ragione la sua culla d’arte.

Valeria purtroppo se ne è andata. Troppo presto. Ha lasciato dietro di sé uno strano silenzio in bianco e nero.

Quest’anno Venezia ha ospitato a Cà Pesaro alcune delle sue opere, in particolare quelle relative alla “produzione veneziana”. Se passate di lì vi consiglio di farci un salto, e di farvi catturare nei meandri dei suoi disegni.
La mostra si intitola Alchimie Veneziane e dura fino al 27 aprile.

Ho scelto per il post questo quadro perché per composizione, soggetto e colori è uno di quelli che più mi coinvolge.

Ne proporrò altri nei prossimi post.

mercoledì 19 marzo 2008

Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti



Forse non si adatta molto alla Pasqua, ma girovagando qua e là su You Tube ho trovato questo Carmelo Bene che interpreta "All'amato se stesso" di Majakovskij.
Non amo la poesia declamata, lo so, è un mio limite. La poesia per me va letta in silenzio, da soli.
Questo è uno dei rarissimi casi in cui faccio un'eccezione. Carmelo Bene interpreta magistralmente il senso dei versi di Majakovskij, accompagnato da un pianoforte che sottolinea i passaggi in maniera eccellente.
E' una delle mie poesie preferite, dalla grande forza emotiva. Un uomo grande, grosso, eppure così pieno di amore da non sapere dove metterlo.
Proprio come mi sento sempre io.

All’amato se stesso dedica queste righe l’autore

Quattro.
Pesanti come un colpo.
“A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio.”
Ma uno
come me
dove potrà ficcarsi?
Dove mi si è apprestata una tana?
S’io fossi
piccolo
come il Grande Oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde,
con l’alta marea carezzando la luna.
Dove trovare un’amata
uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!
Oh, s’io fossi povero!
Come un miliardario!
Che cos’è il denaro per l’anima?
Un ladro insaziabile si annida in essa.
All’orda sfrenata dei miei desideri
non basta l’oro di tutte le Californie.
S’io fossi balbuziente
come Dante
o Petrarca!
Accendere l’anima per una sola!
Ordinarle coi versi di struggersi in cenere!
E le parole
e il mio amore
sarebbero un arco di trionfo:
pomposamente,
senza lasciar traccia, vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.
Oh, s’io fossi
silenzioso
come il tuono,
gemerei,
stringendo con un brivido il decrepito eremo della terra.
Se urlerò a squarciagola
con la mia voce immensa,
le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto dalla malinconia.
Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti
se fossi
appannato
come il sole!
Che bisogno ho io
di abbeverare col mio splendore
il grembo dimagrato della terra!
Passerò,
trascinando il mio enorme amore.
In quale notte
delirante,
malaticcia,
da quali Golia fui concepito,
così grande
e così inutile?

Vladimir Majakovskij, 1916

giovedì 13 marzo 2008

Cuore o straccio di tela?




Giù – per lo strapiombo – in
Polvere! Pece. In – pace.
Condire sempre con lacrime di sale
avanzi di amore umano?

Balcone. Tra scrosci salati
catrame amaro di baci.
Sospiro sfrenato dell’odio:
in un verso – riprendere fiato!

E questo, gualcito nella mano,
cos’è: cuore o straccio
di tela? C’è un nome: Giordano
per questi fradici impacchi.

Sì, perché la lotta con l’amore
è selvaggia, spietata. Salto –
dalla fronte di granito: fiato
tirato – nella morte!

30 giugno 1922


Perché tu non mi veda –
in vita – di spinosa invisibile
siepe mi circondo.

Di rovi mi cingo,
in brina – scendo.

Perché tu non mi senta –
in notte – nella senile scienza
del riserbo mi cimento.

In mormorio – mi stringo,
di sussurri mi bendo.

Perché tu troppo non fiorisca
in me – tra libri: tra boscaglie –
vivo – ti affondo.

Di fantasie ti cingo
fantasma – ti sricordo.

25 giugno 1922


Marina Cvetaeva scrive questi versi per un amore finito. Le cronache ci dicono che più che di amori si trattava di passeggere infatuazioni di una donna facile a perdersi dietro un capriccio.
Per noi, lettori appassionati, tutte queste interpretazioni poco contano.
Ci piace leggere nei versi piccoli pezzi di noi e attorno ad essi vivere le nostre emozioni.

venerdì 29 febbraio 2008

Vengo venenoso



Ispirata dall'ultimo post di laura, ecco che ho scovato questo "Vengo venenoso" di Antonio Carmona. Antonio, insieme al fratello e al cugino, eredi della famiglia Habichuela, grandi chitarristi di flamenco, hanno fondato negli anni '80 i Ketama, una band che mescolava flamenco tradizionale con elementi jazz e latini. Meritano senz'altro un post a parte (aspettatevelo per la prossima settimana!).

Questo invece è il primo disco di Antonio Carmona da solo.

Nel frattempo, ho iniziato a frequentare un corso di spagnolo presso l'Istituto Cervantes. Sono molto felice di essere tornata dopo tanti anni sui banchi di scuola.

Si avvicina la primavera e noi, oscuri esseri nati tra l'autunno e l'inverno, usciamo finalmente allo scoperto.

Sin saber no se porque te encuentro ahora
No se porque tu te cruzaste en mi camino
Es un peligro este querer, no es una broma
Que son tus besos lo mejor que he conocido

Sin querer no se porque yo estoy ahora
Abrazado aquí contigo a este destino
Es que tu amor es un peligro no es una broma
Que son tus besos lo mejor que he conocido

Este querer, me esta matando
Este querer es tuyo y mio sin mas
Este querer, me esta matando
No tengo nada y nada tengo

Vengo, vengo, venenoso
Tu me matas yo muero en tus labios rojos
Vengo, vengo venenoso
Tu me matas yo muero en tus labios rojos

Es inútil, dejar de quererte
Yo ya no puedo vivir sin tu amor
Lo que yo quiero es mirarte de frente
Para decirte que todo te lo di

Que no hay amor tan puro y tan sincero
Que no hay manera de hacertelo entender
Porque ya ves, no importa ni el pasado
Si en esta vida hay que saber perder

Vengo, vengo, venenoso
Tu me matas yo muero en tus labios rojos
Vengo, vengo venenoso
Tu me matas yo muero en tus labios rojos

mercoledì 27 febbraio 2008

Inciampa piuttosto che tacere...



Stamattina mi sono svegliata con questa canzone di Ivano Fossati nella testa. Ho trovato su youtube soltanto questo video, che non mi piace affatto ma è l’unico modo per farvela ascoltare.
La trovo una canzone gioiosa e primaverile, piena di poesia. Una canzone sulla leggerezza della vita e dell’amore. Un invito a volare a quanti si lasciano prendere dalla pesantezza, e un’esortazione ad inciampare piuttosto che tacere e domandare piuttosto che aspettare. E quel “volare addosso”, che rende così bene il travolgente impeto della passione.

Da ieri sono su Facebook, dietro suggerimento di un caro amico che vive a Bruxelles. E’ un modo per tenersi in contatto tra persone che vivono lontane. Divertente. Le svariate possibilità che offre la rete mi affascinano sempre.

Bella,
che ci importa del mondo
verremo perdonati te lo dico io
da un bacio sulla bocca un giorno o l'altro.

Ti sembra tutto visto tutto già fatto
tutto quell'avvenire già avvenuto
scritto, corretto e interpretato
da altri meglio che da te.

Bella,
non ho mica vent'anni
ne ho molti di meno
e questo vuol dire (capirai)
responsabilità
perciò…

Volami addosso se questo è un valzer
volami addosso qualunque cosa sia
abbraccia la mia giacca sotto il glicine
e fammi correre
inciampa piuttosto che tacere
e domanda piuttosto che aspettare.

Stancami
e parlami
abbracciami
guarda dietro le mie spalle
poi racconta
e spiegami
tutto questo tempo nuovo
che arriva con te.

Mi vedi pulito pettinato
ho proprio l'aria di un campo rifiorito
e tu sei il genio scaltro della bellezza
che il tempo non sfiora
ah, eccolo il quadro dei due vecchi pazzi
sul ciglio del prato di cicale
con l'orchestra che suona fili d'erba
e fisarmoniche
(ti dico).

Bella,
che ci importa del mondo.

Stancami
e parlami
abbracciami
fruga dentro le mie tasche
poi perdonami
sorridi
guarda questo tempo
che arriva con te

guarda quanto tempo
arriva con te.

giovedì 21 febbraio 2008

La mente ha corridoi




One need not be a Chamber – to be Haunted –
One need not be a House –
The Brain has Corridors – surpassing
Material Place –

Far safer, of a Midnight Meeting
External Ghost
Than it’s interior Confronting –
That Cooler Host.

Far safer, through an Abbey gallop,
The Stones a’chase –
Than Unarmed, one’s a’self encounter –
In lonesome Place

Ourself behind ourself, concealed
Should startle most –
Assassin hid in our Apartment
Be Horror’s least.

The Body – borrows a Revolver
He bolts the Door
O’erlooking a superior spectre –
Or More –


Perché gli spettri ti possiedano –
non c’è bisogno di essere una stanza –
Non c’è bisogno di essere una casa –
La mente ha corridoi – che vanno oltre
lo spazio materiale –

Assai più sicuro, un incontro a Mezzanotte,
con un fantasma – esterno –
piuttosto che con il suo riscontro interiore –
quell’ospite più freddo.

Assai più sicuro, attraversare al galoppo un’abbazia
rincorsi dalle pietre –
Piuttosto che incontrare, disarmati,
in solitudine – il proprio io.

L’io che si nasconde dietro l’io
Una scossa ben più terrorizzante –
di un assassino in agguato
nella propria casa.

Il corpo – prende a prestito una rivoltella
spranga la porta –
senza accorgersi di uno spettro
più altero – o peggio.

Emily Dickinson, 1863

Ecco che vi propino ancora una volta la scrittura "inquieta e inquietante, astratta e insieme raffinatamente sensuale sgorgata da una vita fatta di reclusione, silenzio, attesa" (Barbara Lainati, prefazione a "Silenzi") di una delle mie poetesse preferite.
Incontrare disarmati il proprio io...Trovo questa poesia estremamente toccante. E mi astengo dal rovinarla con inutili commenti (ma voi fatelo, sono sempre curiosa di sapere cosa ne pensate!).


venerdì 15 febbraio 2008

Mi soledad sin descanso



Romance del Emplazado

Para Emilio Aladrén

¡Mi soledad sin descanso!
Ojos chicos de mi cuerpo
y grandes de mi caballo,
no se cierran por la noche
ni miran al otro lado
donde se aleja tranquilo
un sueño de trece barcos.
Sino que, limpios y duros
escuderos desvelados,
mis ojos miran un norte
de metales y peñascos
donde mi cuerpo sin venas
consulta naipes helados.

*

Los densos bueyes del agua
embisten a los muchachos
que se bañan en las lunas
de sus cuernos ondulados.
y los martillos cantaban
sobre los yunques sonámbulos,
el insomnio del jinete
y el insomnio del caballo.

*

El veinticinco de junio
le dijeron a el Amargo:
Ya puedes cortar, si gustas,
las adelfas de tu patio.
Pinta una cruz en la puerta
y pon tu nombre debajo,
porque cicutas y ortigas
nacerán en tu costado,
y agujas de cal mojada
te morderán los zapatos.
Será de noche, en lo oscuro,
por los montes imantados,
donde los bueyes del agua
beben los juncos soñando.
Pide luces y campanas.
Aprende a cruzar las manos,
y gusta los aires fríos
de metales y peñascos.
Porque dentro de dos meses
yacerás amortajado.

*

Espadón de nebulosa
mueve en el aire Santiago.
Grave silencio, de espalda,
manaba el cielo combado.

*

El veinticinco de junio
abrió sus ojos Amargo,
y el veinticinco de agosto
se tendió para cerrarlos.
Hombres bajaban la calle
para ver al amplazado
que fijaba sobre el muro
su soledad con descanso
Y la sábana implacable,
de duro acento romano,
daba equilibrio a la muerte
con las rectas de sus paños


************************


Solitudine mia senza riposo!
Occhi piccoli del mio corpo
e grandi del mio cavallo
non si chiudono con la notte
né guardano dalla parte
da cui si allontana tranquillo
un sogno di tredici barche.
Ma chiari e duri
vigili scudieri,
i miei occhi mirano un punto
di metalli e di rupi,
dove il mio corpo senza vene
consulta carte gelate.

*

I grandi buoi dell’acqua
investono i ragazzi
che si bagnano nelle lune
delle loro corna arcuate.
E i martelli cantavano
sulle incudini sonnambule
l’insonnia del cavaliere
e l’insonnia del cavallo.

*

Il venticinque di giugno
dissero all’Amargo:
puoi tagliare se vuoi
gli oleandri del tuo cortile.
Dipingi una croce sulla porta
e scrivici sotto il tuo nome,
perché cicute e ortiche
nasceranno dal tuo costato,
e aghi di calce bagnata
ti morderanno le scarpe.
Avverrà al buio, di notte
sui monti calamitati
dove i buoi dell’acqua
bevono giunchi sognando.
Chiedi luci e campane.
Impara a incrociare le mani
e assaggia i venti freddi
di metalli e di rupi
perché tra due mesi
giacerai nel sudario.

*

Grande spada nebulosa
agita in aria Santiago.
Silenzio grave
stillava il cielo curvo.

*

Il venticinque di giugno
aprì gli occhi Amargo
e il venticinque d’agosto
si coricò per chiuderli.
Uomini scendevano la strada
per vedere il convenuto
che fissava sopra il muro
la sua solitudine in riposo.
E il lenzuolo impeccabile,
di duro accento romano,
equilibrava la morte
con le pieghe della sua tela.

Il grande Camaron de la Isla, favoloso cantaor flamenco morto ancora giovane nel 1992, interpreta magistralmente questa struggente lirica di Federico Garcia Lorca, “Romance del emplazado”, tratta dal Romancero gitano (cliccate qui per sentirla, purtroppo su Youtube non c'è nessun video), accompagnato alla chitarra dal grande Tomatito. Il testo della canzone è quello evidenziato in rosso e il titolo è Romance del Amargo. La interpreta su un ritmo di soleá por bulerías, chi mastica un po’ di flamenco sa di cosa sto parlando. Lasciatevi trasportare dalla sua potente voce, sentirete dei brividi percorrere la pelle.

Federico Garcia Lorca scrive il Romancero gitano nel 1928. Si tratta di un’opera composta da 15 liriche più tre romance di carattere storico.

Il personaggio principale è la pena, che non è nostalgia e nemmeno malinconia, ma “lotta dell’intelligenza amorosa con il mistero che la circonda e non la comprende”. Il gitano rappresenta il conflitto della vita: il singolo che cerca di affermare la sua individualità di fronte al mondo, da cui nasce il suo tragico destino.

Il gitano simboleggia il conflitto tra primitivismo e civilizzazione, tra istinto e ragione. Il gitano rappresenta gli impulsi naturali, la spontaneità: è il prototipo dell’uomo libero, in lotta con le forze che rappresentano la coazione e la repressione (la Guardia Civil). Il mondo del gitano è un mondo instabile, di sogno (“juego de luna y arena”, gioco di luna e arena), il mondo del desiderio che si dibatte tra la vita e la morte.
Il gitano finisce per soccombere al suo tragico destino, dal quale non può fuggire.

Amore e morte si intrecciano.

Lorca fa largo uso di simboli nei suoi versi. La luna rappresenta la morte e la pietrificazione; il vento è il simbolo erotico maschile; il pozzo è l’espressione della passione sospesa, senza via d’uscita; il colore verde è il desiderio proibito che conduce alla frustrazione e alla sterilità; la figura del cavallo rappresenta la passione sfrenata che conduce alla morte; lo specchio è il focolare e la vita sedentaria. Rappresentazioni metaforiche dello specchio sono a volte gli occhi, e la luna come grande specchio nel quale si riflette il mondo. Le tredici barche sono segno di malaugurio.